Guglielmo Gigliotti
Lo spazio della scultura
2005
“E’ lo spazio la fonte inesauribile della mia ricerca
con il quale mi confronto di continuo,
con soluzioni che immagino infinite,
come infinito è lo spazio.”
Salvatore Giunta (1)
“Navigate al mio seguito,
compagni aviatori,
navigate nell’abissso.”
Casimir Malevic (2)
Sculture. Le chiamano così.
Le chiameremo così anche noi.
In fondo “scultura” è solo una parola.
Come lo è “spazio”.
Solo che per “vedere” lo spazio la scultura può essere un ottimo espediente.
Espediente che s’inerpica, nelle sculture-spazio di Salvatore Giunta, in aerei ed arcuati slanci nel vuoto, dove trova uno stato di sospensione, la soglia impalpabile dell’equilibrio sfuggente eppur evidente. Nastri, aste e sfere, quando in metallo quando in legno, fendono l’ambiente come morbide saette, vi si innestano come nervature improvvisamente appalesate.
Sculture?
Forse siamo più vicini alla loro realtà se le definissimo tensioni spaziali, traiettorie energetiche o ipotesi plastico-ambientali. Oppure se scegliessimo per loro tre versi in formato haiku, di mano dello stesso Giunta: “Graffi nel cielo/segnano immagini/mete lontane”.
Ciò che in loro è calibrato con esattezza e chiarezza è, per paradosso, proprio la loro precarietà. Sembrano sul punto di sgretolarsi, implodere, se non svanire, ma stanno lì, bloccate nella loro “scultoreità”, come fotogrammi di qualcosa che frana (“tutto al limite della caduta”, direbbe Salvatore Giunta). Ciò che le alleggerisce, fino a suggerire agravitazionali dimensionalità, è il loro stato di potenziale sparizione. Si materiano, quindi, oltre che di legno e metallo, della loro possibilità d’estinzione plastica. Se non fosse così non potrebbero fare all’amore con lo spazio, non potrebbero flessuosamente incarnarne i segreti.
Sarà capitato a tutti di apprezzare una scultura imponente, magari costituita da una massa di quintali di marmo, per la sua leggerezza. La questione è che l’oggetto plastico, per essere opera d’arte, deve paradossalmente esprimere un senso di non-peso, ovvero costituirsi per mezzo di individuazione di quei punti in cui la materia si converte da sola in soffio e l’ingombro passivo in vitalità poetica. Nella scultura batte un cuore anti-scultoreo, perché essa è frutto - e nell’arte moderna in modo ancora più evidente - di focalizzazioni di virtualità plastiche del vuoto, espresse mediante intuizioni spaziali.
La scultura non si colloca nello spazio, lo rivela.
Lo spazio che rivela Salvatore Giunta non è lo spazio di Salvatore Giunta, non è di sua proprietà, è spazio e basta. Salvatore Giunta compone le partiture per farlo vibrare, ne orchestra le limpide, aperte, ariose architetture, i ritmi sinuosi, le impreviste asimmetrie. E poi lo lascia stare, perché quello spazio esisteva anche prima, solo che “sculturizzandosi” è andato a coincidere con lo spazio mentale, con la mente vissuta come spazio.
L’arte è sempre un gesto mentale, è oggettivazione di potenzialità che necessitano dell’arte per reificarsi e farsi “opera”. E’ nata proprio per questo l’arte. Non si fa arte per andare al di là di se stessi, ma per espandere il “se stesso” verso quei territori, poco esplorati, che al “se stesso” sono propri. Non si tratta di voli nel fantastico, nell’impossibile, nel sogno, no; una tale accezione è stata sempre autoriduttiva per chi se ne faceva interprete e portatore.
“Il cranio dell’uomo è anche il cosmo”, asseriva Malevic, che nella sua mente navigò fino a non saper più distinguere i confini tra sé e mondo, tra l’io e lo spazio infinito. Che se veramente tale, lo spazio, come asserisce l’astrofisica, esso non-finisce neanche quando incontra noi, bensì ci congloba, ché altrimenti non sarebbe in-finito, ma terminerebbe a cospetto della nostra coscienza, si fermerebbe davanti alla punta del nostro naso. Questi sono fatti scientificamente oggettivi, non voli mistici.
Gli atomi, di per sé, non hanno nulla di poetico. Ma il sapere che, tra nucleo atomico e orbite degli elettroni, c’è il niente, il vuoto, lo Spazio, ci fa trasognare microscopiche infinità di cui è non-materiato anche il nostro corpo, nonché la parte più sottile di esso, che è la mente.
E’ solo una questione di proporzioni.
La natura dello spazio non è né micro né macro, siamo noi, il nostro “noi” culturale, a scegliere le prospettive da cui osservare tale spazio e dunque ad eleggere scale di misura.
E per questo che ho parlato poco prima di “ipotesi” per definire le spazio-sculture di Giunta. Tali “ipotesi” sono a-proporzionali, fluide come lo spazio-che-non-finisce e, secondo Einstein, s’incurva pure, avvoltolandosi nel tempo, fino ad identificarcisi.
Torniamo a Malevic.
E’ stato il primo tra i moderni ad avere avuto chiara percezione ed esperienza di quanto si sta dicendo, e merita attenzione. A partire dal 1920 il padre del Suprematismo e di tanta arte del Novecento, smise di dipingere. Non smise di essere artista, iniziò solo a sondare la sua mente. Iniziò a realizzare i “Planiti”, detti anche “Architectona”. Dall’aspetto sembrano sculture astratte d’assetto geometrico, ma il russo li concepì come stazioni orbitali interplanetarie, come satelliti che avrebbero dovuto galleggiare “tra la terra e la luna”. La sua pittura, sondando le potenzialità della mente, s’era fatta utopia siderale e visione cosmica, aveva rotto la cornice per coincidere con la spazio fisico tutto.
“Mi sono trasfigurato nello zero delle forme”, asserì nel “Manifesto del Suprematismo” del 1915; quello “zero” si tramutò ben presto in navicella spaziale, in veicolo per andare al di là di tutti i limiti mentali imposti, azzerandone gli assunti e sposando il Tutto.
La fisicità del nostro essere corpo che gravita, trova oggettiva liberazione nelle capacità progettuali della mente: l’infinito dell’arte è il più importante dei progetti della mente.
E’ per questo che filosofi, scrittori, architetti e artisti sono ricorsi all’utopia, all’u-topos, al luogo che non c’è, che è progetto assoluto.
Si pensi ad Antonio Sant’Elia, il visionario architetto che trovò casa nel Futurismo e la morte - ventottenne - in guerra. La sua importanza storica risiede negli avveniristici e anticipatori progetti di grattacieli-totem della modernità, con tanto di “ascensori esterni, galleria, passaggio coperto, su tre piani stradali (linea tranviaria, strade per automobili, passerella metallica) fari e telegrafi senza fili” (come recita il titolo del disegno di un progetto del 1914); ma fu lui il primo ad essere del tutto consapevole del portato utopistico di tali idee. I suoi progetti, presentati anche a concorsi per stazioni ferroviarie o chiese, non erano infatti mai corredati delle dovute planimetrie, sezioni, alzati, e venivano puntualmente scartati.(3) Un indisciplinato, un inconcludente? No, uno che viveva del gesto mentale che espande il “sé”, proiettandolo nel futuro per far spazio alle possibilità altrimenti sopite della coscienza. Il suo “sogno architettonico” di una “città futurista” corrispondeva ad un relazionarsi altro alla realtà, non era una fuga da essa. Lo si può anche chiamare “sogno”, ma poi è solo piena consapevolezza delle effettive potenzialità affioranti nel soggetto quando compenetra del tutto l’oggetto.
L’erede di Sant’Elia, Virgilio Marchi, fece di più in tal senso: non partecipava proprio ai concorsi, ma disegnava conglomerati urbani d’un visionarismo parossistico, che negavano alla radice ogni possibilità di loro realizzazione pratica. Vertiginose strade ad andamento spiralico ed archi, volte, guglie svettanti nel cielo della loro inutilità, animavano opere da appendere a parete per essere contemplate. In loro era evidente il bisogno di pensare in grande, ovvero di pensare grandi pensieri per grandi spazi, programmaticamente esplorati da un progettista della mente intesa come città.
Non è un caso che Salvatore Giunta abbia frequentato da giovane la Facoltà di Architettura. E che tra i corsi seguiti ci sia stato uno, condotto da Bruno Zevi, che, a detta dello stesso Giunta, ha lasciato un segno indelebile nel suo personale modo di vedere e vivere lo spazio dell’architettura; ovvero il corso, con tanto di tesina finale, concentrato sulla figura di Baldassarre Peruzzi, architetto della Roma d’inizio ‘500, noto anche per gli illusionismi prospettici da lui dipinti sulle pareti delle sale (soprattutto alla Farnesina), con finti porticati aperti su paesaggi. Un “trucco”, questo del Peruzzi, per negare la nozione di limite murario e inglobare nell’idea di architettura chiusa sue possibilità espansive.
Che le sculture di Salvatore Giunta implichino istanze urbane è lo stesso autore a rivelarlo. Le realizza in dimensioni medie e trasportabili, formato piedistallo potremmo dire, ma le immagina gigantesche e talvolta anche mobili, attraversate da uomini che le utilizzano come grandi ponti. El Lissitzky, con i dipinti della serie “Proun” realizzati nei primi anni Venti, immaginava cose simili: i parallelepipedi vaganti nelle astratte spazialità di quelle opere rappresentavano i modelli di un nuovo urbanesimo, indagato in chiave fino a quel momento solo fanta-progettuale e lirico-pittorico. Peraltro, con le rarefatte armonie di piani, linee e volumi del russo, la concezione plastica di Giunta sembra avere più di un debito. E se non consapevolmente col russo, sicuramente con la cultura compositiva espressa da quella stagione costruttivista e dai successivi esiti concretisti, da Moholy-Nagy agli italiani Veronesi e Melotti.
La dilatazione urbana delle sculture-progetto di Giunta sorvola in taluni casi le stesse immaginarie città, installandosi in mezzo al cielo. E’ il caso di sculture costruite per rapportarsi agli andamenti degli astri, come monumentali astrolabi. La verità è che una volta perforato il limite delle consuete commisurazioni, si può andare avanti e ancora avanti. E poi, con un grande salto, tornare indietro, a dimensioni ambientali comuni, come quelle circoscritte da un vano con tutti gli angoli a posto fino al momento dell’intervento immaginativo di Giunta, che quegli angoli porta, con progressive simulazioni al computer, ad aggettare in invasive convessità, alla stregua di architettonici blob o di anti-angoli che sculturizzano il vuoto.
E’, questa, nel suo complesso, una visione che ha una nobile tradizione.
Yves Klein, gli angoli, nella sua “Architettura d’aria”, li aveva proprio del tutto aboliti, come d’altronde pareti e soffitti, nel loro senso comune del termine: a segnare i limiti immateriali delle sue “abitazioni” ci avrebbero pensato potenti getti d’aria compressa che soffiavano da fori nel terreno, o cascate d’acqua e alte colonne di fuoco.
Un’architettura che tornava agli elementi naturali, come quella “progettata” da Constant sul finire degli anni ’50, forgiata da rigoroso anti-funzionalismo oltre cha da nuvole, energia, movimento, corporeità. Qualche anno prima, Joe Colombo, in fase di piena militanza nel Movimento Nucleare, aveva realizzato un ciclo di disegni dedicati alla “Città del futuro”: edifici sferoidali sospesi su alti pilastri collegati da percorsi volanti lasciavano liberi i vasti spazi del vivere, considerato che le infrastrutture tecniche (trasporto, negozi, industrie) si collocavano sottoterra. Per Gyula Kosice, invece, tutti gli elementi architettonici (soffitti, pareti, pilastri) non dovevano sostenersi per mezzo di giunture, bensì tramite calibratura del campo magnetico. Era il 1946, e ad interessarsi a questi progetti furono soprattutto fisici.
Più vicino nel tempo, tra fine anni ’60 e primi ’70, fu Francesco Somaini a rivoluzionare i rapporti tra scultura e città, intesa come dimensione di un rinnovato vivere. Vi dedicò un libro (“Urgenza nella città”, scritto a due mani con Enrico Crispolti, ed edito da Mazzotta nel 1972) e numerosi progetti a base di disegni e spettacolari fotomontaggi, come quelli realizzati per una radicale riscrittura urbana di Duisburg, in Germania. Non si trattava di collocare sculture all’aperto, ma di modificare alla radice la nozione plastico-ambientale degli spazi umani, in cui il volume-edificio e il tracciato-strada venivano a risolversi in chiave scultorea.
La scultura, o la pittura e la stessa architettura, in questi autori elencati e infine per Salvatore Giunta, vale come pretesto, come rampa di lancio per proiezioni intellettuali che hanno come schermo lo spazio. Pure i celebri “buchi” o “tagli” di Fontana, da lui, fondatore dello Spazialismo, significativamente titolati “Concetti spaziali”, valevano come risultato della percezione della problematica artistica come questione squisitamente spaziale. Anche quelle perforazioni erano espedienti illusivi, “ipotesi” destinate a scardinare lo spazio statico della tela al fine di evocare spazi altri, finanche cosmici: lo spazio cosmico è effettivamente rappresentabile solo in chiave di concetto.
Un’affine lirica concettualità è alla base pure degli aerei incurvamenti plastici di Giunta che così li descrive: ”I piani sghembi si inseguono, si intersecano, si parlano come in un canto che vorrei iniziato sottovoce, ma che poi passa di bocca in bocca, di casa in casa, di città in città. Fino a diventare il canto dello spazio.”
Canto. Musica. Suono. A parlare di sculture-spazio sembra di fatto inevitabile toccare il mondo delle onde sonore, che proprio nello spazio si espandono. Per Salvatore Giunta le sue sculture dovrebbero valere, almeno in chiave per adesso solo progettuale, anche come congegni emettitori di suoni, per mezzo di urto e sfregamento di elementi delle stesse. E’ il rumore della scultura, sua estensione libera e immateriale, che àncora vieppiù l’oggetto plastico allo spazio. E’ plastica fono-ambientale, con articolazioni che manifestano già nel loro conformarsi linearistico, impostato alla leggiadria, una congenita “musicalità”.
Si parla di vibrazioni, e si usa per convenzione e convenienza, come detto all’inizio, la terminologia scultorea. La verità è che le tematiche e le sensibilità evocate dalle “cose” concepite da Salvatore Giunta riguardano sfere della percezione che risultano necessariamente trasversali agli usuali ordinamenti concettuali del discorrere. Diciamo pure che li fanno saltare, come una punta di spillo che fa esplodere un pallone pieno d’aria.
Ciò vale anche per i confini tra le discipline artistiche: scultura, pittura, architettura trovano nell’ideologia spaziale, e in una sua configurazione progettuale, la loro sintesi.
E’ per questo che si è voluto presentare nell’attuale mostra anche gli acrilici su carta realizzati da Giunta tra una scultura e un’altra. La loro parentela con i lavori tridimensionali è evidente. Anche sul piano a farla da padrona è la curva, stesa ad ampi gesti. E poi più nulla, ovvero nulla di segnico, perché il resto è solo spazio.
Ma ancora lui, lo spazio, è il protagonista di un’ulteriore versante della creatività giuntiana, i libri d’artista. Ne ha realizzati, a partire dagli anni Ottanta, una quindicina. Libri da non-leggere, ma da guardare, toccare, gustare, libri-opera che ricorrono al formato libro per celare pagine di segni da sfogliare: pochi, essenziali segni, tracce di colore, minimali collage che si caricano di poesia per il loro dialogo con le ampie zonature lasciate libere, lasciate spazio. Anche in questo caso si dovrebbe/potrebbe parlare di fondo, di superfici su cui viene a depositarsi il segno, ma è spazio, e come tale è fattore costitutivo dell’immagine, forse suo fondamento, non certo sua cornice.
Un’ultima sorpresa ancora: lo spazio della pagina si fa acqua.
Avviene in una serie di “Libri d’acqua” realizzati da Giunta.
L’acqua è quella chiusa in sottili buste in plastica trasparente, il “testo” è subacqueo, galleggia nel fluido ed è costituito da vaganti lettere alfabetiche, frammenti di ricamo, fotografie, piccoli elementi geometrici.
Non c’è da sorprendersi: se la scultura si fa spazio, il libro può farsi tranquillamente acqua. E’ il mondo poetico della mente che non rispetta criteri funzionali e categorie oggettuali. L’arte è per sua natura irragionevole, che a voler ragionare si rischia di non poter credere che una scultura possa farsi volo.
(1) Tutte le dichiarazioni di Salvatore Giunta riportate in questo testo sono tratte da:
A. Veneziani, Intervista a Salvatore Giunta, in “Colloquidarte”, Edizioni Ianuarte, Roma 2004.
(2) C. Malevic, Il Suprematismo, testo pubblicato nel catalogo della X Mostra di Stato: Creazione non-oggettiva e suprematismo, inaugurata a Mosca nella primavera 1919.
(3) cfr. G. Di Genova, Storia dell’arte italiana del ‘900 – Generazione maestri storici, tomo I, pp. 258-266, Edizioni Bora, Bologna 1993.
in Lo spazio della scultura, Presentazione della mostra, Museo Bargellini, Pieve di Cento (BO), a cura di G. Gigliotti